Politica estera e questioni globali

Il processo di stabilizzazione dei Balcani occidentali

Il Parlamento della XVII Legislatura ha seguito con grande attenzione il processo di stabilizzazione in atto nei Balcani occidentali, area europea a tutti gli effetti ma che deva ancora completare, in buona parte, la propria integrazione nelle istituzioni euro-atlantiche. Le numerose tensioni nella regione hanno lungamente costituito un potente freno all'avvicinamento all'Unione europea, anche se abbastanza incoraggiante appare ad esempio l'evoluzione nei rapporti tra Serbia e Kosovo, fortemente condizionati dalla capacità attrattiva dell'Unione europea - e permangono tuttavia delle ombre, soprattutto manifestatesi nei tempi più recenti, per alcuni accenti di apparente rilancio della prospettiva della "Grande Albania" provenuti tanto da Tirana che da Pristina.

Per quanto concerne proprio l'Albania, questa sembra incamminata sulla via delle riforme indispensabili per una futura adesione all'Unione europea - il paese ha ricevuto nel giugno 2014 il riconoscimento dello status di paese candidato - ma rischia di pregiudicare le prospettive europee proprio inserendosi nella già difficilissima questione dei rapporti tra Serbia e Kosovo.

Per quanto riguarda la Bosnia-Erzegovina, nel 2014 il paese ha vissuto un momento di gravissima crisi, con imponenti proteste popolari contro la corruzione insita nel complesso sistema istituzionale del paese, e poi con una serie di alluvioni di smisurata entità. Nel marzo 2015 tuttavia si riusciva a siglare l'Accordo di stabilizzazione e associazione della Bosnia-Erzegovina all'Unione europea, in sospeso da sette anni, e quasi un anno dopo il paese presentava formale domanda di ingresso nell'Unione europea. Nonostante controspinte di matrice etnica soprattutto da parte dell'entità serbo-bosniaca, il credito internazionale del paese subiva un indubbio beneficio anche dalla doppia condanna dei due protagonisti della fazione serbo-bosniaca nel corso dei tragici conflitti degli Anni Novanta, rispettivamente l'ideologo Radovan Karadzic e il comandante militare Ratko Mladic, che subivano condanne innanzi al Tribunale internazionale dell'Aja a quarant'anni (il primo) e all'ergastolo (il secondo).

Assai più problematica appare la situazione nella Repubblica di Macedonia, scossa da gravi contrasti politici all'interno dei quali si insinua la dimensione etnica della presenza di una cospicua minoranza albanese nel paese, una parte della quale filogovernativa, mentre l'altra è accusata dalle autorità di collegarsi con elementi "terroristici" del Kosovo per minare la stabilità macedone. Le tensioni politiche hanno condotto un certo punto anche un passo indietro di Nikola Gruevski, capo del Partito conservatore, che all'inizio del 2016 lasciava la carica dopo un accordo politico negoziato dall'Unione europea. Cionondimeno si rendevano necessari rinvii nello svolgimento di elezioni politiche, le quali non davano poi risultati decisivi, e frammezzo a tutto ciò clamorosi episodi di irruzione di manifestanti sia nella sede del Capo dello Stato che nel palazzo parlamentare.

Non dissimili le tensioni politiche che hanno caratterizzato il piccolo Stato del Montenegro, sempre guidato, direttamente o indirettamente, dallo storico leader Milo Djukanovic, nel quale per di più l'elemento dell'imminente ingresso del paese nella NATO ha costituito per lungo tempo un fattore di gravi contrasti, fino a che nel giugno 2017 l'Alleanza atlantica ha accolto il Montenegro al proprio interno, marcando un indubbio insuccesso per il tradizionale alleato russo e la forte corrente filorussa interna al paese. Peraltro la stabilità governativa, ottenuta con l'avvicendamento di figure comunque riferentisi a Milo Djukanovic, era favorita anche dal ricorrente boicottaggio elettorale da parte delle opposizioni.

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Albania

Le elezioni politiche del 23 giugno 2013 registravano, pur in un clima di violenza e tensione che faceva stato delle persistenti difficoltà politiche del paese, una netta vittoria del centro-sinistra di Edy Rama – poi divenuto premier il 10 settembre - sul Partito democratico di Sali Berisha. Proprio la valutazione positiva del processo elettorale faceva sì che alla metà di ottobre il rapporto annuale della Commissione europea concedesse finalmente all'Albania la raccomandazione per lo status di paese candidato all'adesione alla UE.

Alla raccomandazione faceva seguito, nel Consiglio europeo del 26-27 giugno 2014, la vera e propria concessione a Tirana dello status di paese candidato – concessione che peraltro non implicava di per sé l'apertura di negoziati per l'adesione, bensì un incoraggiamento per il futuro sulla base del positivo riconoscimento del lavoro fatto. Non a caso all'Albania veniva prospettata anche una serie di condizioni ancora lungi dall'essere adempiute, soprattutto nel campo della lotta alla corruzione e al crimine organizzato, piaghe della società albanese così come di quella di altri Stati balcanici aspiranti all'integrazione europea. L'allora Ministro degli esteri Federica Morini, in visita a Tirana il 25 luglio, esprimeva tutta la propria soddisfazione per il traguardo raggiunto dall'Albania, sottolineando come l'Italia fosse stata tra i paesi più impegnati per tale prospettiva. Tuttavia la visita di novembre del primo ministro albanese Edi Rama a Belgrado si risolveva in un fallimento, soprattutto per i dissidi sul Kosovo manifestati in pubblico.

Nel marzo 2015 il governo socialista di Tirana annunciava un piano per la privatizzazione della compagnia petrolifera statale Albpetrol, due anni dopo che il precedente governo del Partito Democratico lo aveva accantonato.

Nel luglio 2016 il Partito socialista al governo e il Partito democratico di opposizione concordavano su radicali riforme del sistema giudiziario, viste come chiave per procedere nei negoziati di adesione con l'Unione europea.

 

Bosnia-Erzegovina

Il complesso apparato istituzionale della Bosnia-Erzegovina riceveva, nonostante i segnali positivi che nel 2012 avevano consentito lo sblocco dello stallo istituzionale, un duro colpo il 26 aprile 2013, quando veniva tratto in arresto con gravi accuse di corruzione Zivko Budimir, presidente della Federazione Bh, l'Entità croato-musulmana della Bosnia-Erzegovina, appartenente al partito ultranazionalista dell'etnia croata: assieme a Budimir venivano altresì incarcerati 18 alti funzionari dell'Entità croato-musulmana.

Il progressivo aggravarsi della situazione economica bosniaca in un contesto di apparente indifferenza delle autorità costituite verso i problemi del paese provocava all'inizio di febbraio del 2014 l'esplodere di vaste proteste in tutto il paese, che si accanivano in particolar modo nel territorio della Federazione croato-musulmana contro le istituzioni cantonali, accusate di essere sostanzialmente inutili e troppo costose, e per di più assenti nel territorio della Repubblica Srpska, la cui condizione economica appariva nettamente migliore. Il bilancio degli scontri del 7 febbraio vedeva numerosi arresti e circa duecento feriti, la maggior parte dei quali, a riprova della durezza del confronto, tra le forze dell'ordine. Gli scontri proseguivano nella serata del 7 febbraio addirittura con l'assalto all'edificio in cui ha sede la presidenza tripartita del paese. Nei giorni successivi la veemenza delle proteste si placava, ma la partecipazione ad esse era sempre molto vasta, profilandosi un movimento di contestazione ampio e deciso ad agire ad oltranza. Naturalmente non mancava chi soffiava sul fuoco della protesta cercando di strumentalizzarla in chiave etnica, ma si levavano più voci del tutto contrarie a caratterizzare in questo modo le proteste; gli stessi paesi responsabili dell'applicazione dell'accordo di pace di Dayton del 1995 condannavano ogni strumentalizzazione etnica, rilevando come le preoccupazioni fossero comuni a tutti cittadini bosniaci nei confronti della corruzione, della disoccupazione e della totale mancanza di prospettive economiche. La difficile situazione bosniaca era seguita da presso dall'Unione europea, ma anche dalla Turchia, con il tempestivo arrivo a Sarajevo l'11 febbraio del ministro degli esteri turco Davutoglu. Alle grandi difficoltà economiche si aggiungevano alla metà di maggio le devastanti alluvioni che colpivano anche la Serbia e la Croazia orientale, con decine di morti e incalcolabili danni all'agricoltura e alle infrastrutture. Il 24 luglio si recava a Sarajevo il Ministro degli esteri Federica Mogherini in missione nei Balcani, con tappa iniziale proprio in Bosnia-Erzegovina, paese che, secondo il nostro ministro, aveva bisogno di riforme non ulteriormente procrastinabili, e la cui urgenza era richiesta anzitutto dai cittadini bosniaci - Mogherini indicava le elezioni dell'ottobre 2014 come occasione per una svolta verso un percorso virtuoso. Nelle elezioni generali di ottobre il Partito di azione democratica emergeva vittorioso, e presentava Denis Zvizdic per la carica di primo ministro, che avrebbe ottenuto nel febbraio 2015.

Nel marzo 2015 i ministri degli esteri dell'Unione europea e della Bosnia firmavano l'Accordo di stabilizzazione e di associazione in sospeso dal 2008, incrementando le possibilità di adesione della Bosnia all'Unione europea, previa l'attuazione di importanti riforme politiche ed economiche.

Nel febbraio 2016 la Bosnia presentava una richiesta formale di adesione all'Unione europea. In marzo il tribunale delle Nazioni Unite a L'Aja dichiarava l'ex leader serbo-bosniaco Radovan Karadzic colpevole di genocidio e crimini di guerra - compreso il massacro di Srebrenica del 1995 - e lo condannava a 40 anni di prigione.
In settembre i serbo-bosniaci votavano in modo schiacciante per mantenere il 9 gennaio come festa nazionale, nonostante l'opposizione della Corte costituzionale bosniaca. Il leader musulmano bosniaco Bakir Izetbegovic denunciava il voto come una violazione dell'accordo di pace di Dayton che aveva posto fine alla guerra del paese.

Nel novembre 2017 l'ex comandante militare serbo-bosniaco Ratko Mladic veniva riconosciuto colpevole di genocidio e crimini contro l'umanità durante la guerra in Bosnia, e condannato all'ergastolo.

 

Kosovo

Il governo serbo di impronta teoricamente più nazionalista succeduto al periodo di Tadic e capeggiato da Dacic si spingeva nel marzo 2013 ad ammettere che in qualche modo il Kosovo non andava più considerato parte della Serbia, e che era ormai tempo per tutti i serbi di prenderne atto, superando le bugie raccontate a lungo negli anni passati. Ciononostante però i colloqui ripetuti a Bruxelles tra le rispettive delegazioni non registravano veri progressi, fino a che il 19 aprile veniva raggiunto un accordo definito storico tra il premier kosovaro Hashim Thaci e quello serbo Ivica Dacic, finalizzato alla sistemazione della zona settentrionale del Kosovo, abitata prevalentemente da serbi e oggettivamente facilitata dalla vicinanza geografica nel mantenimento di forti legami con Belgrado. L'accordo prevedeva anche la collaborazione della NATO alla sua attuazione, NATO che intanto avrebbe continuato a garantire la sicurezza dell'intero Kosovo. La parte fondamentale dell'accordo serbo-kosovaro, articolato in 15 punti, prevedeva la nascita di una associazione dei comuni a maggioranza serba nel Kosovo settentrionale, associazione che avrebbe goduto di una vasta autonomia che andava dai poteri di polizia all'amministrazione della giustizia, tuttavia nell'ambito delle strutture nazionali del Kosovo. Nel contesto dell'accordo ciascuna parte si impegnava a non agire per bloccare il percorso di integrazione europea dell'altro contraente, nonché a contribuire nel 2013 all'organizzazione di elezioni nei comuni del Nord del Kosovo. Nelle more della ratifica dell'accordo nelle rispettive capitali si levavano forti le voci dei serbi del Kosovo settentrionale, come anche della Chiesa ortodossa di Belgrado, fortemente contrari all'accordo appena siglato - in effetti va ricordato che i serbi del Nord del Kosovo non erano stati inclusi nelle estenuanti tornate negoziali che avevano condotto alla firma dell'accordo.  Tuttavia il parlamento serbo approvava il 26 aprile a larga maggioranza l'accordo del 19 – cui il parlamento kosovaro aveva già dato via libera quattro giorni prima -: poche ore dopo la Commissione europea presentava ai ministri degli esteri della UE riuniti a Lussemburgo i rapporti su Serbia e Kosovo, che raccomandavano rispettivamente l'apertura dei negoziati per l'adesione e dei negoziati per l'accordo di associazione all'Unione europea – in effetti il Vertice europeo della fine di giugno indicava per entrambe le questioni la data del 1° gennaio 2014. Alla metà di ottobre il rapporto annuale della Commissione europea accordava al Kosovo luce verde per dare avvio al negoziato per l'accordo di stabilizzazione e associazione con la UE; tuttavia il 3 novembre le elezioni locali registravano nel nord del Kosovo ripetute intimidazioni e violenze da parte dei serbo-kosovari contrari agli accordi del 19 aprile 2013, con gravi ombre sulla possibilità di effettiva attuazione degli stessi, e, di riflesso, pregiudizio della possibilità di effettiva integrazione europea del Kosovo e della Serbia.

Rinnovato ottimismo destavano le elezioni kosovare dell'8 giugno 2014, alle quali per la prima volta partecipavano massicciamente anche i serbo-kosovari – lo stesso premier di Belgrado Vucic aveva espresso auspici in tal senso -, consolidando la compagine istituzionale del paese e le prospettive di reale attuazione degli accordi del 2013. La maggioranza relativa veniva riportata dal Partito democratico del Kosovo del premier in carica Hashim Thaci, che con poco più del 30% dei voti incontrava però difficoltà a dar vita a un nuovo governo. La calante affluenza al voto (41%) denunciava un certo scollamento dalla politica seguita dalle autorità, anche qui alle prese con forte disoccupazione, corruzione e diffusa criminalità.

Nel gennaio 2017 i contrasti rinascevano quando la Serbia lanciava un nuovo servizio ferroviario tra Belgrado e il nord del Kosovo, con lo slogan "il Kosovo è serbo" dipinto sulle carrozze in venti lingue. In settembre Ramush Haradinaj riceveva l'incarico di formare un nuovo governo, ponendo fine a mesi di stallo politico.

Nel gennaio 2018 l'esponente politico serbo-kosovaro Oliver Ivanovic era ucciso a colpi d'arma da fuoco a Mitrovica: proseguivano tuttavia i colloqui di normalizzazione tra la Serbia e il Kosovo.

 

Serbia

Il nuovo governo serbo uscito dalle elezioni del 2012, di impronta teoricamente più nazionalista e capeggiato da Ivica Dacic confermava tuttavia sostanzialmente le dichiarazioni rassicuranti dello stesso Dacic nei confronti dell'Europa, soprattutto per i progressi nelle relazioni con il Kosovo: al proposito il Ministro degli Esteri Emma Bonino, in visita a Belgrado il 18 giugno 2013, ribadiva l'impegno dell'Italia per la rapida fissazione in sede europea di una data per l'inizio dei negoziati di adesione della Serbia, che in effetti nel Vertice europeo di fine giugno veniva stabilita per il 1° gennaio 2014. Alla metà di ottobre l'impegno italiano veniva ribadito dal Presidente del Consiglio Enrico Letta nel terzo vertice bilaterale di Ancona.

Il 16 marzo 2014 si svolgevano le elezioni legislative anticipate, che premiavano largamente colui che forse più di tutti le aveva volute, ovvero Aleksandar Vucic,  capo del partito conservatore filoeuropeista (Partito del progresso serbo), che sfiorava il 50% dei consensi su un'affluenza – calante – del 53% circa, distanziando in maniera abissale le altre forze politiche, tra le quali il Partito socialista di Ivica Dacic, secondo, riportava appena il 13% dei voti – Vucic peraltro rilanciava la coalizione con i socialisti. Vucic aveva caratterizzato la campagna elettorale con forti accenti riformisti ed europeisti: proprio in chiave di adesione ai requisiti posti da Bruxelles andrebbe interpretato il repulisti dei vertici della polizia decretato da Vucic, con la rimozione in tronco dei capi dei cinque dipartimenti del corpo, accusati di inerzia, lassismo e talvolta complicità nei confronti della criminalità organizzata e del narcotraffico. In ottobre il ministro degli Esteri del Kosovo Enver Hoxhaj si recava a Belgrado per una riunione ministeriale regionale: si trattava della prima volta di un ministro kosovaro nella capitale serba dalla secessione del 2008. Meno positiva si rivelava in novembre la visita a Belgrado del primo ministro albanese Edi Rama - attesa come una possibilità di riconciliazione propedeutica per l'adesione all'Unione europea -, e macchiata da una lite pubblica sullo status del Kosovo.

Nel marzo 2015 la Serbia operava i suoi primi arresti di persone accusate di aver preso parte direttamente al massacro di Srebrenica del 1995, imprigionando sette uomini.

Un anno dopo tuttavia (marzo 2016) il tribunale per i crimini di guerra delle Nazioni Unite giudicava che l'ultranazionalista serbo Vojislav Seselj non fosse colpevole di crimini contro l'umanità per le guerre nei Balcani. La sentenza lo rende il serbo di più alto profilo per essere assolto dal tribunale delle Nazioni Unite. In aprile il Partito progressista di Aleksandar Vucic otteneva una sicura maggioranza alle elezioni parlamentari, ricevendo così il primo ministro un nuovo mandato per promuovere le riforme richieste per l'adesione all'Unione europea. Le medesime elezioni segnavano peraltro il ritorno in parlamento del Partito radicale serbo di Vojislav Seselj. In agosto Vucic formava un nuovo governo di coalizione, proseguendo nell'alleanza ormai quadriennale tra progressisti e socialisti.

Nell'aprile 2017 il primo ministro Aleksandar Vucic otteneva la carica di Capo dello Stato, ed entrava in carica alla fine di maggio. Subito dopo Ana Brnabic gli subentrava alla direzione del governo.

 

Repubblica di Macedonia

Il 24 marzo 2013 si svolgevano in Macedonia le elezioni municipali, giudicate sostanzialmente corrette – ma con alcune eccezioni – dagli osservatori OSCE: tenuto conto anche dei ballottaggi del 7 aprile, il partito conservatore al governo, facente capo a Gruevski, si aggiudicava 55 comuni su 81, mentre 15 andavano all'alleato di governo dell'Unione democratica degli albanesi, e 5 all'opposizione socialdemocratica.

Il predominio del partito conservatore perdurava anche nel 2014, quando il 27 aprile si svolgevano simultaneamente le elezioni legislative anticipate di un anno e il ballottaggio delle presidenziali, che registrava la conferma del capo dello Stato uscente Ivanov. Il primo ministro Gruevski formava un nuovo governo di coalizione con l'Unione democratica albanese per l'integrazione, mentre i socialdemocratici denunciavano brogli elettorali.

Nel febbraio 2015 l'Unione europea esprimeva preoccupazione per l'aggravarsi dei contrasti tra i due principali partiti della Macedonia, dopo che i socialdemocratici avevano accusato il governo di intercettare illegalmente le comunicazioni di ventimila persone, compresi politici dell'opposizione. In maggio a seguito di scontri nella città settentrionale di Kumanovo perdevano la vita 8 poliziotti e 14 dimostranti armati: il governo incolpava i "terroristi" etnici albanesi del vicino Kosovo per i disordini. I partiti di opposizione mettevano in atto grandi proteste, chiedendo al primo ministro Nikola Gruevski di dimettersi per presunta corruzione, e provocando controraduni dai sostenitori filogovernativi. Tra 2015 e 2016 la Macedonia doveva confrontarsi con un numero enorme di migranti in marcia dal Medio Oriente al Nord Europa.

All'inizio del 2016 il primo ministro Nikola Gruevski si dimetteva, in seguito all'accordo negoziato dall'Unione europea per porre fine a mesi di crisi politica. Emil Dimitriev prestava giuramento come primo ministro ad interim. In aprile manifestanti passavano a vie di fatto nell'ufficio del Presidente Ivanov dopo che questi aveva bloccato i procedimenti giudiziari contro politici di spicco coinvolti in uno scandalo di intercettazioni. Il prolungato tumulto politico provocava il rinvio delle  elezioni anticipate programmate per giugno: il loro svolgimento in dicembre non produceva un risultato netto, e seguivano mesi di tensione intorno alla formazione di un nuovo governo.

Nell'aprile 2017 si verificavano scene caotiche in parlamento, quando manifestanti irrompevano nel palazzo dopo una votazione finalizzata ad eleggere come presidente un deputato di etnia albanese.

Montenegro

Nelle elezioni presidenziali del 7 aprile 2013,  Filip Vujanovic era confermato nel ruolo di capo dello Stato, seppure solo con il 51,2% dei consensi e l'aspra contestazione dello sfidante Miodrag Lekic – cui erano andati i voti delle opposizioni di destra e di sinistra - per presunte frodi elettorali.

Tra il 2015 e il 2016 l'ondata di proteste dell'opposizione contro il governo di Milo Djukanovic divideva la coalizione di governo, anche per le accuse di corruzione e per l'opposizione all'adesione alla NATO. Nell'ottobre 2016 il governo accusava le forze politiche sostenute dalla Russia di tentare un colpo di stato alla vigilia delle elezioni parlamentari, e 14 persone erano incriminate, tra le quali due cittadini russi. In novembre Dusko Markovic assumeva il ruolo di primo ministro dal suo collega del Partito socialista democratico Milo Djukanovic, dopo che il partito aveva perso alcuni seggi alle elezioni di ottobre, ma rimanendo al potere grazie al boicottaggio del parlamento da parte dell'opposizione.

Nel mese di giugno 2017 il Montenegro entrava nella NATO, con grave disappunto della Russia, il suo alleato tradizionale.