Il contratto di lavoro a tempo determinato è stato inizialmente disciplinato dall'art. 2097 c.c. il quale prevedeva, analogamente all'attuale normativa di riferimento, che il contratto di lavoro fosse considerato prioritariamente quello a tempo indeterminato, salvo diversa indicazione specificata in forma scritta per i contratti a tempo determinato. Il contratto a termine rappresentava dunque una forma eccezionale di contratto di lavoro subordinato.
Tale impostazione è stata seguita anche successivamente dalla L. 230/1962 che permetteva l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro solo nei casi specificamente indicati (incremento stagionale dell'attività produttiva, sostituzione di lavoratori, esecuzione di un'opera o servizio predeterminati, lavorazioni a fasi successive, assunzioni per specifici spettacoli, assunzioni per lo svolgimento di determinati servizi operativi di terra o di volo).
Nell'evoluzione normativa della disciplina del contratto a termine si è inserito anche quanto previsto dalla L. 56/1987 che disponeva che l''apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro fosse consentita anche nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. A tale contrattazione collettiva veniva attribuito altresì il compito di stabilire il numero in percentuale dei lavoratori che possono essere assunti con contratto di lavoro a termine rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato.
D.Lgs. 368/2001
In tale quadro normativo si inserisce poi la Direttiva 1999/70/CE, recepita dal D.Lgs. 368/2001, oggetto di successive modificazioni e, in ultimo, di abrogazione ad opera del D.Lgs. 81/2015 (decreto attuativo del cosiddetto Jobs Act), che reca la disciplina attuale del contratto in oggetto, così come modificata da interventi legislativi successivi (vedi infra).
Il D.Lgs. 368/2001 ha avviato il percorso volto a consentire un uso più ampio del contratto a tempo determinato, in particolare attraverso la sostituzione delle suddette causali specifiche con causali più generiche. L'apposizione del termine era infatti consentita in caso di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, da dover specificare per iscritto.
Il medesimo decreto ha introdotto altresì delle esclusioni per determinati tipi di contratto, come i contratti di formazione e lavoro o di apprendistato, nonché preclusioni e divieti in presenza di specifiche situazioni, come per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero, in caso di licenziamenti collettivi effettuati nei sei mesi precedenti l'assunzione, di riduzione dell'orario di lavoro o da parte delle imprese che non avessero effettuato la valutazione dei rischi.
Poiché la centralità del contratto a tempo indeterminato rispetto a quello a termine non era esplicitata nel D.Lgs. 368/2001, esso è stato modificato una prima volta dalla L. 247/2007 che, per limitare l'utilizzo di tale tipologia contrattuale, ha disposto che "il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato".
Modifiche al D.Lgs. 368/2001: L. 92/2012, D.L. 76/2013 e D.L. 34/2014
La L. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro (cd. Riforma Fornero) ha apportato modifiche sostanziali alla suddetta disciplina dettata dal D.Lgs. 368/2001.
Dopo aver specificato anch'esso che il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro, introduce la cosiddetta acausalità, consentendo alle parti di stipulare un primo contratto a tempo determinato per un massimo di dodici mesi anche senza dover necessariamente specificare le ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive.
Successivamente, il D.L. 76/2013 è intervenuto su taluni vincoli all'utilizzo di tale forma contrattuale introdotti dalla richiamata L. 92/2012. Tali modifiche prevedevano:
Successivamente, il D.L. 34/2014 ha dettato ulteriori disposizioni in materia di contratti a tempo determinato, con l'obiettivo di facilitare ulteriormente il ricorso a tali tipologie contrattuali.
A tal fine esso ha modificato in più parti il D.Lgs. 368/2001, prevedendo, in primo luogo, l'innalzamento da 1 a 3 anni, comprensivi di un massimo di 5 proroghe, della durata del rapporto a tempo determinato (anche in somministrazione) che non necessita dell'indicazione della causale per la sua stipulazione (c.d. acausalità).
A fronte dell'eliminazione della causale, viene introdotto un "tetto" all'utilizzo del contratto a tempo determinato, stabilendo che il numero complessivo di rapporti di lavoro a termine costituiti da ciascun datore di lavoro non può eccedere il limite del 20% dei lavoratori a tempo indeterminato alle sue dipendenze. Il superamento del limite comporta una sanzione amministrativa pari al 20% e al 50% della retribuzione per ciascun mese di durata del rapporto di lavoro, se il numero di lavoratori assunti in violazione del limite sia, rispettivamente, inferiore o superiore a uno. Per i datori di lavoro che occupano fino a 5 dipendenti era comunque sempre possibile stipulare un contratto a tempo determinato. Il limite del 20% non trova applicazione nel settore della ricerca, limitatamente ai contratti a tempo determinato che abbiano ad oggetto esclusivo lo svolgimento di attività di ricerca scientifica, i quali possono avere durata pari al progetto di ricerca al quale si riferiscono.
Jobs act – D.Lgs. 81/2015
La disciplina del contratto a termine è confluita successivamente negli articoli da 19 a 29 del D.Lgs. 81/2015 (emanato in attuazione della delega contenuta nella L. 183/2014, cd. jobs act, il quale, pur non alterando la struttura dell'istituto venutasi a delineare alla luce degli interventi normativi di inizio legislatura, ha comunque apportato significative modifiche alla sua disciplina, con contestuale abrogazione del D.Lgs. 368/2001.
In particolare, tra gli interventi contenuti nella riforma si segnalano:
Veniva altresì confermato il numero massimo di proroghe del contratto a tempo determinato, pari a 5.
Infine, si segnala la soppressione di alcune disposizioni contenute nella disciplina previgente, quali il rinvio alla contrattazione collettiva per il superamento del divieto (che diviene, quindi, tassativo) di ricorso al lavoro a termine in determinate ipotesi (per mansioni svolte da lavoratori oggetto di licenziamenti collettivi negli ultimi 6 mesi), la norma in base alla quale il diritto di precedenza deve essere espressamente previsto nell'atto scritto con cui si stabilisce il termine al contratto, le norme che escludevano dalla disciplina sui contratti a termine i rapporti di apprendistato e le tipologie contrattuali legate a fenomeni di formazione, nonché la norma in base alla quale, in caso di assunzioni successive a termine senza soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto, nonché la disciplina derogatoria prevista per i contratti a termine stipulati da imprese start up innovative della disposizione che prevedeva una durata contrattuale minima di sei mesi
D.L. 87/2018
Il predetto quadro normativo è stato successivamente modificato dal cosiddetto decreto dignità. Tali modifiche hanno riguardato solo il settore privato e hanno stabilito una durata massima del contratto a termine pari a 24 mesi, in luogo dei 36 precedentemente previsti.
In tale ambito, la acausalità è limitata al primo ed unico rapporto di durata massima di 12 mesi, mentre le causali sono state reintrodotte in caso di contratti di durata superiore a 12 mesi (anche per effetto di proroga) e nei casi di rinnovo (anche al di sotto dei 12 mesi), ma sempre entro il limite massimo di 24 mesi.
Originariamente, le causali introdotte dal D.L. 81/2017 erano le seguenti:
Il numero delle proroghe era stato portato ad un massimo di 4 (in luogo di 5) nell'arco dei suddetti 24 mesi.
Inoltre, il termine per l'impugnazione stragiudiziale è stato incrementato da 120 a 180 giorni.
Per quanto riguarda le suddette causali, esse sono state modificate da interventi successivi: