Con la Sentenza del 3 settembre 2020, nella causa C-719/18, la Corte di Giustizia UE ha stabilito che la disposizione italiana che impedisce a Vivendi di acquisire il 28% del capitale di Mediaset è contraria al diritto dell'Unione: tale disposizione costituisce un ostacolo vietato alla libertà di stabilimento, in quanto non è idonea a conseguire l'obiettivo della tutela del pluralismo dell'informazione.
La Corte ricorda, innanzitutto, che l'articolo 49 TFUE osta a qualsiasi provvedimento nazionale che possa ostacolare o scoraggiare l'esercizio, da parte dei cittadini dell'Unione, della libertà di stabilimento garantita dal TFUE. È questo il caso della normativa italiana che vieta a Vivendi di mantenere le partecipazioni che essa aveva acquisito in Mediaset o che deteneva in Telecom Italia, obbligandola quindi a porre fine a tali partecipazioni, nell'una o nell'altra di tali imprese, nella misura in cui esse eccedevano le soglie previste. La Corte osserva inoltre che, anche se una restrizione alla libertà di stabilimento può, in linea di principio, essere giustificata da un obiettivo di interesse generale, quale la tutela del pluralismo dell'informazione e dei media, ciò non avviene nel caso della disposizione in questione, non essendo quest'ultima idonea a conseguire tale obiettivo. La Corte ricorda, a tale proposito, che il diritto dell'Unione, per quanto riguarda i servizi di comunicazione elettronica, stabilisce una chiara distinzione tra la produzione di contenuti e la loro trasmissione 4 . Pertanto, le imprese operanti nel settore delle comunicazioni elettroniche, che esercitano un controllo sulla trasmissione dei contenuti, non esercitano necessariamente un controllo sulla produzione di tali contenuti. Ebbene, la disposizione in questione non fa riferimento ai collegamenti tra la produzione e la trasmissione dei contenuti e non è neppure formulata in modo da applicarsi specificamente in relazione a tali collegamenti. La Corte rileva, peraltro, che la disposizione in questione definisce in modo troppo restrittivo il perimetro del settore delle comunicazioni elettroniche, escludendo in particolare mercati che rivestono un'importanza crescente per la trasmissione di informazioni, come i servizi al dettaglio di telefonia mobile o altri servizi di comunicazione elettronica collegati ad Internet nonché i servizi di radiodiffusione satellitare. Ebbene, poiché essi sono divenuti la principale via di accesso ai media, non è giustificato escluderli da tale definizione. La Corte constata, inoltre, che equiparare la situazione di una «società controllata» a quella di una «società collegata», nell'ambito del calcolo dei ricavi realizzati da un'impresa nel settore delle comunicazioni elettroniche o nel SIC, non appare conciliabile con l'obiettivo perseguito dalla disposizione in questione. La Corte conclude che la disposizione italiana fissa soglie che, non consentendo di determinare se e in quale misura un'impresa possa effettivamente influire sul contenuto dei media, non presentano un nesso con il rischio che corre il pluralismo dei media.