Con la sentenza n. 10 del 2020 la Corte costituzionale ha dichiarato l'inammissibilità della richiesta di referendum popolare promossa da otto Consigli regionali (delle Regioni Abruzzo, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna e Veneto) avente ad oggetto l'abrogazione di una parte della disciplina elettorale e delle disposizioni di delega per la determinazione dei collegi al fine di dare vita ad un sistema elettorale in cui la totalità dei seggi da attribuire sul territorio nazionale siano assegnati, con metodo maggioritario, nei collegi uninominali (quindi al candidato che – in ciascun collegio – ha ottenuto il maggior numero di voti validi). Il meccanismo di assegnazione basato su collegi uninominali sarebbe in tal modo esteso dall'attuale previsione di tre ottavi al totale di otto ottavi.
Il quesito referendario chiedeva dunque di abrogare tutte le disposizioni che fanno riferimento ai collegi plurinominali ed all'attribuzione dei seggi con metodo proporzionale, intervenendo altresì sulla delega legislativa per la determinazione dei collegi elettorali di cui all'art. 3 della legge 51 del 2019.
La Corte ha preliminarmente ripercorso la principale giurisprudenza sull'ammissibilità del quesito referendario alla luce dei criteri desumibili dall'art. 75 Cost. e del complesso dei «valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum, al di là della lettera dell'art. 75 secondo comma Cost.» (sentenza n. 16 del 1978). Ha ricordato in particolare la necessità, non solo che la richiesta referendaria non investa una delle leggi indicate nell'art. 75 Cost. o comunque riconducibili ad esse, ma anche che il quesito da sottoporre al giudizio del corpo elettorale consenta una scelta libera e consapevole, richiedendosi pertanto i caratteri della chiarezza, dell'omogeneità, dell'univocità del medesimo quesito, oltre che l'esistenza di una sua matrice razionalmente unitaria. "La presentazione delle richieste rappresenta l'avvio necessario del procedimento destinato a concludersi con la consultazione popolare; ma non è meno vero che la sovranità del popolo non comporta la sovranità dei promotori e che il popolo stesso dev'esser garantito, in questa sede, nell'esercizio del suo potere sovrano" (sentenza n. 16 del 1978). Ne consegue l'ulteriore affermazione che il referendum abrogativo non può essere "trasformato – insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie" (sentenza n. 16 del 1978).
La Corte ha ricordato di aver in precedenza ammesso anche le operazioni di ritaglio di frammenti normativi e di singole parole, a condizione però che l'abrogazione parziale chiesta con il quesito referendario non si risolva sostanzialmente «in una proposta all'elettore, attraverso l'operazione di ritaglio sulle parole e il conseguente stravolgimento dell'originaria ratio e struttura della disposizione» (sentenza n. 36 del 1997). In questi casi, infatti, il referendum, perdendo la propria natura abrogativa, tradirebbe la ragione ispiratrice dell'istituto, diventando approvativo di nuovi principi e «surrettiziamente propositivo» (ex plurimis, sentenze n. 13 del 2012, n. 28 del 2011, n. 33 e n. 23 del 2000 e n. 13 del 1999; nello stesso senso, sentenze n. 43 del 2003, n. 38 e n. 34 del 2000): un'ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può «introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall'ordinamento» (sentenza n. 36 del 1997).
Agli indicati requisiti questa Corte ne ha aggiunto altri in ragione della specificità dell'oggetto della richiesta referendaria, sempre nella prospettiva della piena realizzazione dei richiamati «valori di ordine costituzionale». E in questo contesto ha affermato che sono sottratte all'abrogazione totale mediante referendum le leggi costituzionalmente necessarie, quali in particolare le leggi elettorali di organi costituzionali o di rango costituzionale, la cui mancanza creerebbe un grave vulnus nell'assetto costituzionale dei poteri dello Stato.
Allo stesso modo, anche l'eventuale abrogazione parziale di leggi costituzionalmente necessarie, e in primis delle leggi elettorali, deve comunque garantire l'«indefettibilità della dotazione di norme elettorali» (sentenza n. 29 del 1987), dovendosi evitare che l'organo delle cui regole elettorali si discute possa essere esposto «alla eventualità, anche solo teorica, di paralisi di funzionamento» (sentenza n. 47 del 1991). Sicché è condizione di ammissibilità del quesito che all'esito dell'eventuale abrogazione referendaria risulti «una coerente normativa residua, immediatamente applicabile, in guisa da garantire, pur nell'eventualità di inerzia legislativa, la costante operatività dell'organo» (sentenza n. 32 del 1993; nello stesso senso, sentenze n. 13 del 2012, n. 16 e n. 15 del 2008, n. 13 del 1999, n. 26 del 1997, n. 5 del 1995), dovendosi intendere in particolare la cosiddetta auto-applicatività della normativa di risulta alla stregua di «una disciplina in grado di far svolgere correttamente una consultazione elettorale in tutte le sue fasi, dalla presentazione delle candidature all'assegnazione dei seggi» (sentenze n. 16 e n. 15 del 2008). La medesima esigenza si è posta anche nel caso di parziale illegittimità costituzionale delle leggi elettorali della Camera e del Senato (sentenze n. 35 del 2017 e n. 1 del 2014).
Nel caso in questione, il quesito referendario è stato ritenuto dalla Corte univoco nell'obiettivo che intende perseguire e dotato di una matrice razionalmente unitaria "risultando evidente che l'obiettivo dei Consigli regionali promotori è di estendere alla totalità dei seggi di Camera e Senato il sistema elettorale attualmente previsto per l'assegnazione dei tre ottavi di essi".
Il quesito abrogativo presentato è stato tuttavia ritenuto dalla Corte inammissibile "per l'assorbente ragione del carattere eccessivamente manipolativo dell'intervento sulla norma di delega".
La Corte ha ritenuto, da una parte, che alcune incongruenze, derivanti dai sopravvissuti riferimenti normativi, potessero essere agevolmente superate attraverso gli ordinari strumenti di interpretazione, e all'assenza della previsione legislativa del modello di scheda possa essere posto rimedio in modo pressoché automatico disponendo – anche con un atto di normazione secondaria – il mero mantenimento dei nomi dei candidati nei collegi uninominali e dei gruppi politici che li sostengono. In ordine alla scheda elettorale, il cui fac simile è allegato ai testi unici per l'elezione della Camera e del Senato, d'altronde, già nella sentenza n. 1 del 2014 la Corte aveva evidenziato come "interventi normativi secondari, meramente tecnici ed applicativi sono strumenti bastevoli per innestare la preferenza nella scheda elettorale per il Senato".
Relativamente al carattere eccessivamente manipolativo dell'intervento sulla norma di delega la Corte ha invece ricordato come, già in altre occasioni, avesse avuto modo di affrontare la questione della necessità di una nuova determinazione dei collegi elettorali a seguito dell'eventuale abrogazione referendaria (sentenze n. 5 del 1995, n. 26 del 1997 e n. 13 del 1999) o della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una parte della normativa elettorale (sentenza n. 1 del 2014).
In particolare, nel giudizio di ammissibilità del referendum deciso con la sentenza n. 5 del 1995, ha rilevato che «[a] seguito della espansione del sistema maggioritario per l'attribuzione del totale dei seggi […], occorrerebbe procedere ad una nuova determinazione dei collegi uninominali in ciascuna circoscrizione, ridisegnandoli in modo da ottenerne un numero, sul territorio nazionale, pari al totale dei deputati da eleggere e non più al solo settantacinque per cento del totale medesimo».
Con la medesima pronuncia, preso atto del fatto che l'opera di revisione dei collegi «è pur sempre destinata a concludersi, dopo un complesso procedimento, con l'approvazione di una legge, ovvero con un decreto legislativo emanato dal Governo sulla base di una nuova legge di delegazione, così come avvenuto nel 1993», questa Corte ha ritenuto «decisivo rilevare che di fronte all'inerzia del legislatore, pur sempre possibile, l'ordinamento non offre comunque alcun efficace rimedio», con il rischio che si determini «la crisi del sistema di democrazia rappresentativa, senza che sia possibile ovviarvi». Di conseguenza, ha dichiarato inammissibile la richiesta referendaria.
Parimenti, nel giudizio di ammissibilità del referendum deciso con la sentenza n. 26 del 1997, la necessità di «procedere a una nuova definizione dei collegi uninominali in ciascuna circoscrizione, ridisegnandola in modo da ottenere un numero, sul territorio nazionale, pari al totale dei deputati da eleggere e non più […] al 75 per cento», ha indotto questa Corte a rilevare che «il sistema elettorale non consentirebbe la rinnovazione dell'organo», non potendo «dirsi sufficiente, allo stato, l'attività istruttoria svolta dalla speciale commissione tecnica, di cui all'art. 7 della legge n. 276 del 1993, dal momento che occorrerebbe pur sempre un intervento del legislatore, volto a conferire una nuova delega o imperniato su una diversa scansione procedurale, nel rispetto dei principi fissati dalla legge e con la garanzia dei pareri delle Camere». Da cui, anche in quel caso, l'inammissibilità del relativo quesito referendario.
A esiti opposti, ma sempre utilizzando lo stesso schema argomentativo, la Corte è giunta nel giudizio di ammissibilità del referendum deciso con la sentenza n. 13 del 1999, là dove ha riscontrato «una piena garanzia di immediata applicabilità del sistema di risulta, in quanto i collegi elettorali uninominali rimarrebbero immutati, senza nessuna necessità di ridefinizione in ciascuna circoscrizione, sia nel numero sia nel conseguente ambito territoriale».
Infine, nel giudizio di legittimità costituzionale definito con la sentenza n. 1 del 2014, questa Corte ha incidentalmente affermato che «la normativa che rimane in vigore stabilisce un meccanismo di trasformazione dei voti in seggi che consente l'attribuzione di tutti i seggi, in relazione a circoscrizioni elettorali che rimangono immutate, sia per la Camera che per il Senato».
Diversamente dai precedenti giudizi nel caso di specie la Corte ha rilevato come il problema della determinazione dei collegi elettorali si presenti in termini parzialmente diversi, per l'inclusione nel quesito referendario di una previsione di delega per la revisione dei collegi elettorali.
La Corte, al riguardo, "pur consapevole dei limiti che il requisito della immediata applicabilità pone all'ammissibilità di referendum su leggi elettorali", non ha ritenuto praticabile il ‘percorso demolitorio-ricostruttivo' individuato dai promotori per superare l'ostacolo della non auto-applicatività. Infatti, i Consigli regionali promotori, al fine di evitare che la richiesta referendaria avente ad oggetto i testi delle leggi elettorali di Camera e Senato potesse incorrere nei medesimi profili di inammissibilità per difetto del carattere di auto-applicatività della normativa di risulta, già rilevati in casi simili dalla giurisprudenza costituzionale, hanno individuato la soluzione nella richiesta di parziale abrogazione anche della norma di delega recata dall'art. 3 della legge n. 51 del 2019, con l'obiettivo di renderne possibile l'esercizio anche a seguito dell'eventuale esito positivo del referendum abrogativo.
In particolare, cogliendo l'occasione dell'esistenza di una delega resa dal Parlamento al Governo al fine di consentire l'applicabilità della riforma costituzionale in itinere che modifica il numero dei parlamentari i Consigli regionali promotori hanno proposto un intervento su di essa diretto a conferirle il contenuto di delega a rideterminare i collegi uninominali in attuazione del nuovo sistema elettorale in ipotesi prodotto dal referendum.
L'intervento sulla disposizione di delega proposto dai presentatori si realizzerebbe essenzialmente con: a) la parziale modifica del suo oggetto, che viene circoscritto, sia nella rubrica sia nel comma 1 dell' art. 3, alla «determinazione dei collegi uninominali» e non più di quelli plurinominali; b) l'eliminazione della condizione sospensiva della delega, che ne consentirebbe l'esercizio anche in caso di mancata promulgazione di una legge costituzionale di modifica del numero dei parlamentari entro ventiquattro mesi dalla entrata in vigore della legge n. 51 del 2019; c) l'abrogazione del dies a quo del termine di sessanta giorni per l'esercizio della delega; d) l'eliminazione dei riferimenti ai collegi plurinominali nei principi e criteri direttivi della delega (sia nella legge n. 51 del 2019, sia nella legge n. 165 del 2017).
L'intervento richiesto sull'art. 3 della legge n. 51 del 2019 è dunque – ha rilevato la Corte – "solo apparentemente abrogativo e si traduce con tutta evidenza in una manipolazione della disposizione di delega diretta a dare vita a una ‘nuova' norma di delega, diversa, nei suoi tratti caratterizzanti, da quella originaria". Quanto alla radicale alterazione della delega originaria, "tutti i ‘caratteri somatici' della legge di delegazione – individuati dall'art. 76 Cost. come condizioni per la delega dell'esercizio della funzione legislativa da parte del Parlamento – si presenterebbero completamente modificati nella delega di risulta".
Pertanto, modificandosi il contesto del sistema elettorale in cui la nuova delega opererebbe, i principi e criteri direttivi "finirebbero per essere solo formalmente gli stessi e per acquistare invece, alla luce del nuovo e diverso meccanismo di trasformazione dei voti in seggi, portata a sua volta inevitabilmente nuova e diversa".
Radicalmente diverso sarebbe, ancora, secondo quanto evidenziato dalla Corte il dies a quo del termine per l'esercizio della delega, attualmente previsto nel momento di entrata in vigore della legge costituzionale di modifica del numero dei parlamentari, ma oggetto di abrogazione totale da parte del quesito referendario. In questo caso, quand'anche si ritenesse che la sua abrogazione in esito al referendum consenta di rinvenire, in via interpretativa, un nuovo dies a quo nel momento in cui si produrrà l'effetto abrogativo del referendum stesso, si tratterebbe comunque, all'evidenza, di un termine del tutto nuovo.
Infine, il quesito referendario mira a sopprimere la condizione sospensiva della delega di cui all'art. 3 della legge n. 51 del 2019, eliminando per questo verso il suo legame "genetico" con la riforma costituzionale del numero dei parlamentari e finendo con il produrre in questo modo una delega "stabile" e, in quanto non più condizionata a una particolare evenienza, sicuramente operativa. Vi sarebbe, in tal modo, un ‘inammissibile effetto ampliativo della delega originaria' che, conferita dal Parlamento sub condicione, diventerebbe incondizionata con il risultato di una manipolazione incompatibile, già solo per questo, con i limiti e le connotazioni peculiari della delega legislativa.
La Corte aveva infatti posto in evidenza, nell'incipit, come la norma di delega recata dalla legge n. 51 del 2019 fosse configurabile come una delega "precaria", rispetto al cui esercizio è incerto l'an, ma non il quando, essendo definiti i limiti temporali del suo esercizio, ovviamente possibile solo a condizione che si verifichi l'evento complesso di cui sopra.
Infine, la Corte ha ricordato che la delega, ancorché parzialmente abrogata, dovrebbe rimanere utilizzabile anche a seguito dell'entrata in vigore della legge costituzionale che riduce il numero dei parlamentari, alla quale era destinata a dare attuazione, ed essere così oggetto di un duplice e contestuale esercizio, dopo lo svolgimento del referendum costituzionale e di quello abrogativo qui all'esame.
Conclusivamente, nella sentenza si evidenzia come "l'eccessiva manipolatività del quesito referendario, nella parte in cui investe la delega di cui all'art. 3 della legge n. 51 del 2019, è incompatibile con la natura abrogativa dell'istituto del referendum previsto all'art. 75 Cost., ciò che ne determina l'inammissibilità".